Anatolia e Gerano

Di Francesca Rubina Pepe e Simone Turianelli
Voce narrante di Sofia Cacciaguerra
🥇 1 Classificata - italiano

Si dice che le tartarughe abbiano una memoria ferrea ma per loro due non era così. Non ricordavano da dove venivano né quale fosse il loro nome, ricordavano soltanto il presente e il recente passato: loro due innamorati e la vita all’interno del piccolo laghetto azzurro, ovvero la bacinella che il giramondo Ramòn portava con sé, di fiera in fiera, per esporre le sue tartarughe d’acqua dolce. La vita all’interno della bacinella era abbastanza tranquilla e, seppur in mezzo a tante altre tartarughe, loro due stavano sempre insieme, una di fianco all’altra. Lui era intelligente, furbo e razionale, Lei romantica, dolce e premurosa. Così diversi e così innamorati, il loro sentimento cresceva di giorno in giorno e, grazie alla professione di Ramòn, giravano il mondo, mangiavano in abbondanza e ricevevano sorrisi da grandi e piccini. Era una vita meravigliosa se non fosse per l’unico grande pericolo: la mano nera! Già… la mano nera, la mano di Samir, il giovane marocchino che da diversi anni era il garzone di Ramòn. Quando la mano nera entrava nella bacinella qualche tartaruga stava per lasciare quel mondo. Il nostro tartarugo innamorato, da abile pensatore qual’era, appena vedeva la mano nera avvicinarsi alla bacinella prendeva la sua innamorata e la portava a tutta velocità sul fondale, al di sotto di tutte le altre tartarughe, là dove la mano nera non arrivava mai… Samir odiava immergere tutto il braccio e bagnarsi fino al gomito! Un’idea geniale che aveva permesso loro di avere sempre la meglio sulla mano nera. Non a caso, all’interno della bacinella, erano le due tartarughe di più lunga data. Tutto scorreva nell’ordinario fin quando, un giorno, in una rinomata fiera ai piedi di un antico borgo, l’abile Ramòn stava vivendo la giornata dei record, le sue tartarughe andavano a ruba, una dopo l’altra, ancora, ancora e ancora… Era notte fonde ormai quando, all’interno della bacinella, tutte le tartarughe erano state prese dalla mano nera e ne erano rimaste soltanto due, i nostri due innamorati. Era stata una serata colma di pericoli, erano sfuggiti più e più volte alla mano nera, a volte solo per pochi centimetri, ma ora la fiera stava per finire e, con essa, le relative minacce. Poi, all’improvviso, la voce di una bambina infranse tutte le loro certezze: “eccola papà voglio quella, voglio quella!” Il papà, abbracciato alla mamma, sorrise alla sua piccola e annuendo diede il via libera alla mano nera. La caccia fu più lunga del previsto, i nostri 2 innamorati nuotavano in lungo e in largo a massima velocità, con il cuore in gola, per sfuggire alla loro fine… Evitarono più volte la mano nera fin quando Lei, stremata, era chiusa in un angolo e stava per essere presa. Il nostro tartarugo vide la situazione e, senza nemmeno pensarci, si fiondò tra Lei e la mano nera, sacrificandosi al posto della sua dolce metà. La presa stavolta fu immediata e, mentre la mano nera estraeva spietata Lui fuori dall’acqua, lo sguardo dei 2 innamorati si incrociò per l’ultima volta. Nè una parola, né un grido, soltanto il silenzio del dolore più autentico, quello dell’inesorabile addio di coloro che si amano e si separano, involontariamente, ignari e impotenti del proprio destino. Una volta tirato fuori dalla bacinella, Lui, fu catapultato con veemenza in una bustina colma d’acqua, Lei invece era vuota e inerme in fondo al proprio mondo. L’abile Ramòn, che da anni era considerato il più scaltro venditore della carovana fieristica, prima di lasciar andare via il suo ultimo cliente, si rivolse alla bambina dicendo: “E Lei? La lasci qui sola soletta? Non ti fa pena?” (indicando la tartaruga). Il papà della bambina sorrise di nuovo, annuì, e la mano nera, questa volta senza alcuna difficoltà, prese anche Lei e la catapultò nella bustina dove c’era, stordito e disorientato, il suo innamorato. Fu l’inizio di un viaggio che durò oltre 30 minuti, nel buio tetro della notte e in una busta che non lasciava penetrare alcuna luce che potesse permettere loro di vedersi o di capire cosa stesse succedendo. I due innamorati venivano sballottati a destra e a manca, forse nel bagagliaio di un auto, completamente ignari del proprio destino. Poi l’auto si fermò, la bambina prese la busta ed entrò in casa con i suoi genitori. Mise un po’ d’acqua in un acquario e, senza alcun timore prese Lei e Lui e li accomodò lì dentro, al di sopra di un sasso. La mamma della bambina si avvicinò e disse a sua figlia: “Allora… hai deciso come vuoi chiamarli?” “Mmm… come si chiama quella fiera bellissima a cui siamo stati questa sera?” “Anatolia amore” “Si mamma! La chiamerò Anatolia!” “Un bellissimo nome piccola mia. E lui? Il suo fidanzatino? Come lo chiamiamo?” “Non lo so mamma… sceglilo tu?” “Mmm… vogliamo chiamarlo come il paese che ha ospitato la fiera? Gerano?” “Si mamma! Mi piace! La bambina si rivolse allora ai suoi due nuovi amici: “Ciao Anatolia, ciao Gerano! Benvenuti nella nostra famiglia e nella vostra nuova casa! Ora vado a nanna che è tardissimo ma domani faremo un sacco di giochi insieme. Buonanotte!” La bambina andò a dormire e i nostri due innamorati razionalizzarono che il pericolo era scampato, non c’era nulla di cui preoccuparsi, avrebbero continuato a vivere felicemente insieme, senza più il pericolo della mano nera e con una nuova amica pronta a ricoprirli d’amore.

Le ramore secche

Di Maria Mendico
Voce narrante di Silvia Mendico e Sebastiano Placidini
🥈 2 Classificata - italiano

C’era una volta a Gerano un vecchietto. La sua casa era proprio vicino alla chiesa di San Lorenzo. Si chiamava Nando. La sua famiglia ormai non c’era più. I figli vivevano lontani. Anche la bellissima moglie non c’era più da molti anni. Quando Nando era piccino amava correre nei boschi intorno al paese, luoghi magici il cui profumo di felci e castagne era ancora vivo nella sua memoria. Quel vecchietto davanti al fuoco, in solitudine, si perdeva spesso nei ricordi più belli e gioiosi della sua infanzia fra i boschi. Quella sera ricordò che uno strano giorno, in una fredda mattina di dicembre, lui di appena 9 anni fu svegliato che era ancora buio per accompagnare il padre e gli zii a prendere la legna tagliata durante l’estate. “Svegliati Nando! Il freddo non attende! L’inverno non perdona qui lo sai! Il paese ha bisogno di legna!” Assonnato ma felice si alzò, si vestì in fretta e furia, una tazza di latte caldo e via a scatafascio giù per la discesa e poi per le salite a inseguire gli zii e il padre che erano più veloci di lui. Infine, arrivati alla radura dove avevano accatastato la legna, i ‘grandi’ andarono a prendere i muli e dissero a Nando: “tu aspetta qui”. E lui obbediente aspettò. Furono attimi di brividi. Il lupo era accanto alla catasta di legna e lo fissava bonariamente. Nando lo guardò dritto negli occhi. Dai loro nasi uscivano nuvolette di vapore che si alzavano nel gelo del bosco. Gli occhi del lupo si fusero con i suoi. Insieme vedevano le foglie e i ricci di castagne volare alti nel vento quando all’improvviso negli occhi del lupo, Nando vide il fuoco del camino di casa, e magicamente in quelle fiamme comparve un vecchietto con lo sguardo incantato a fissare la legna che ardeva, e nelle fiamme quel vecchietto vide un bambino che lo fissava. E fu lì che si riconobbero. Che mai dice a gliu vecchiu ‘stu focu -Che brucia, scrizziglia e se sfiamma? che mai dice, che chivelle n’lo sente daventru a ‘sta casa da maneaddemà’? Nonnemo n’parla; sta contortu a ‘na sedia, pinsusu, a guardà le ramora secche che gliu focu lecca, avventa e pò … niente. Mò so’ cennere già! Sulu cennere.Chi racconnerà ‘sta favola muta d’un vecchiu denanzi a lo focu financu a la cennere? Caledunu?Le ramora secche! e Nonnemo lo sa. (Le Ramora Secche, da Petali di Rose e Fiori di Campo, Liriche, Fernando Mendico, 1989)

L'uccellino e l'albero

Di Daniela di Florido e Giampaolo Massaccesi
Voce narrante di Anna Rita Felici
🥉 3 Classificata - italiano

C’era una volta, in un paesello di poche anime, un uccellino dalle piume color ambra che viveva su un albero da frutto posto ai confini della macchia boschiva. Quell’albero era sempre stato la sua casa e l’uccellino, quando fu il momento di abbandonare il nido materno, decise di costruire il proprio nido solo a qualche ramo di distanza. Era troppo spaventato dall’ignoto, temeva che allontanandosi si sarebbe dovuto scontrare con altri abitanti del bosco e al solo pensiero tutto il corpo veniva scosso da tremiti irrefrenabili. Ogni volta che questi si presentavano l’uccellino perdeva alcune piume, quindi, per preservarsi, decise che non avrebbe mai abbandonato l’albero dal quale si sentiva protetto, così iniziò a cercare i rametti necessari a costruire il proprio nido. Continuando a vivere lì l’uccellino si rese conto di quanti benefici poteva trarre dall’albero; le foglie lo proteggevano dal Sole e i frutti gli permettevano di nutrirsi. Con il passare del tempo però, altre creature iniziarono a disturbare la sua quiete e i tremori fecero nuovamente capolino nella sua vita. Cornacchie, cinghiali e gli stessi abitanti del paese, tutti erano attratti dai frutti che l’albero generava, tanto che, sia di notte, sia di giorno, l’albero veniva scosso e, spesso, danneggiato a causa dell’altrui noncuranza. Purtroppo, l’uccellino non aveva strumenti per difendere né se stesso, né l’albero che tanto amava e più i giorni passavano, più erano le piume ambrate che perdeva. Nonostante fosse impaurito l’uccellino non prese mai in considerazione l'idea di andare via. Una notte però, a causa di un tremendo temporale un fulmine, facendosi largo nel cielo, colpì proprio il ramo sul quale il nido era stato costruito e così venne distrutto. L’uccellino, riuscito a scappare, aveva passato il resto della nottata appoggiato ad un altro ramo ad osservare, ormai esausto e con poche piume, i resti di quella, che fino a qualche ora prima, era stata la sua adorata casa. Dopo aver sofferto più di quanto avesse mai potuto immaginare, tra i pensieri dell’uccellino iniziò a prender piede l’idea che forse avrebbe potuto trovare qualcosa di meglio oltre quell’albero. Spinto da questa nuova forza si allontanò. Volò per giorni, finché non trovò un nuovo albero. Era così alto che i cinghiali non riuscivano a mangiarne i frutti e così fitto che le cornacchie non potevano volare tra gli intricati rami. Lì costruì il proprio nido e tornò a sentirsi nuovamente al sicuro. A poco a poco il suo piumaggio ridivenne folto e lucente. Da quel momento l’uccellino capì che non doveva più temere di esplorare nuovi orizzonti perché anche se incerti offrono la possibilità di cambiare e di crescere.

LA LOCCA E I PULCINI

Di Giordano Santori
Categoria Favolosi Pulcini -
italiano

c’era una volta alla costa una campagna, il proprietario era nonno lallo, un po' di giorni a settimana lui e nonna luigina, ci andavano, a volte ci pranzavano e a volte ci festeggiavano anche i compleanni. in quella campagna c’erano tanti animali, i conigli, il maiale e un bel gallinaio grande, dove stavano le galline, un bel tacchino e 2 galli. un giorno una gallina si era messa giù e non si muoveva piu’ cosi’ nonno lallo pensava:”me s’e’ ammalata ‘na cajina”. era tutto preoccupato cosi’ chiamo’ il fratello roberto, che era un po piu esperto, che gli disse:”ma chessa non è ammalata, chessa s’e’ alloccata”. il giorno dopo ci sono andato anche io e ho visto le uova schiudersi e c’erano tutti pulcini, cosi ho chiamato nonno lallo e gli ho detto: ”nonno le uova si sono schiuse, sono nati tanti pulcini” insieme a nonno siamo tornati nel gallinaio e li abbiamo contati, erano 9 bei pulcini gialli. nonno ha chiamato nonna luigina che tutta contenta ha detto:”speriamo che so femmone così fau le ova e potimo remette la locca”."

LA ‘NFIORATA

Di Alberta Felici
Voce narrante di Marilena Ficorella
🥇 1 Classificata - dialetto

Stasera a Gerano si fa l’infiorata. Ed eccoli li, tuttì pronti a tessere petali di fiori per realizzare il meraviglioso tappeto. Michele, “soavemente” chiama Augusto -Piseee’, piglia ju camio, scareca,careca,careca e scareca- Pisello borbottando annuisce- jeo co chissu stonco sempre a scareca’. Arrivano le cardiologhe, ditta sorelle Le Matene, cominciano subito -gessu chiovu, spagu, sudore-. Riccardo, Valerio, precisi e professionali lavorano al millimetro al loro progetto. Daniele, eccellenza della sfumatura, esprime un disappunto- i fiuri so pochi, i culuri so pochi, l’organizzazione non c’è…chesta è l’urdima vota che faccio la’nfiorata!! Poco più giù Don Giovanni,con le orecchie coperte dal suo adorato berretto, da ordini a Francesca, dotata dal Signore di tanta pazienza,- forza Francè- - si don Giovà- sbrigate Francè- - si don Giovà- -na riga cusì- - si don Giovà– -mmischia Francè- - si don Giovà- -menne vajo a lettu Francè- - era ora don Giovà. E così per tutta la notte, tra imprevisti e ginocchia rotte , si porta a termine l’omaggio alla Madre del cielo. Il tempo vola, passano 50’anni, e sempre li, in piazza a Gerano,spinti dall’amore per quella festa, si ritrovano sempre le stesse persone, con qualche annetto in più. Michele ormai sordo chiede a Pisello sordo anche lui- Piseeè, ju camio sta essi?- - i cessi? jaio scarecati abballe!- - no le palle, gli iris!!- - i catis? stau vicinu agli cessi!!- - ah! stau essi! allora scareca!!- -scareco scareco! jeo co chissu stonco sempre a scarecà! Le cardiologhe arrivano col deambulatore e con molta calma cominciano ad impastare la segatura per il cuore, ma ad un certo punto Rosella esclama- Fermate Albè!!!!- - che ci sta!- risponde Alberta -m’è cascata la dentiera daventru alla segatura!- -lassamocella sta! cusì dimà, comme passanu i camisi i darà un muzzicu agli stinchi!! sa le risate!!- -ridarai tu!! jeo comme faccio a ride senza denti!!. Riccardo, accompagnato dalla badante arriva dicendo- chist’anno ve faccio un quadru marocco…sarrocco…tarocco- la badante gli suggerisce - barocco Riccà, barocco - - ma perchè jeo che ero ittu!!!- C’è anche Daniele,appoggiato al suo bastone, dove al fondo ha incastonato il gesso per disegnare, con voce tremolante ribadisce ancora - chesta è l’urdima vota che faccio la ‘nfiorata!! i culuri so pochi, i fiuri so pochi, l’organizzazione non c’è!!! A controllare il tutto,appollaiato sulla dismessa portantina dei Papi, fattasi arrivare dal Vaticano, Don Giovanni, ormai centenario,fa un giro d’ispezione, poi esclama - portateme a lettu-. mentre questi arzilli vecchietti svolgono con tutto il loro amore questa ennesima avventura, due ragazzi,seduti sul muretto a bere una birra, guardando la scena, si avvicinano alle transenne e uno di loro dice - so anni che vedo chisti a ‘ffà stu lavuru, se lamentanu, se lamentanu, ma tutti j’anni stau ecchi, ma chello che vedo de più non so le lamentele o la fanaticheria , chello che vedo è che ‘sso contenti mentre lo fau, teu na faccia contenta, serena,appagati dalla fatica e tuttu pe na tradizione….sa che te dico…..jamo, jamoi a da na mani, prima che stiranu le zambi!

JERANU AMMONITE JERANU ABBALLE

Di Maria Rita Censi
Voce narrante di Sebastiano Placidini
🥈 2 Classificata - dialetto

Ve voglio raccontà na favoletta: ci stea un un begliu paese apperreccatu sopra a un montarozzu abbitatu da un puigliu de cristiani e le jornate passeanu ‘mperterrite tra gli guai e gli ‘mpicci de sempre. De figli se ne ficeanu pochi, pe non parlà degli sposalizzi,’nsomma eremo sempre de minu e mentre gliu centro storicu se spopolea, n’abballe se popolea. Un giorno mentre la vita scorrea comme sempre, all’improvviso se fa scuru, sembrea che tenea da piove ma non tirea un filu d’aria, se so allarmati tutti , ‘ mpisturiti pe la paura e a un trattu alla piazza nova atterra un sorte babbarotto de ferru rossu ma rossu che non te dico. Allora comenzanu a chiude tutte le finestre, ‘ntantu Donato chiama subitu Anna de Orfeo che allerta l’annunziata e chiama Paola Priori che allerta la maine, tutti se riuniscianu alla piazza, avvertanu chigli della scivolata e degliu palazzu e azzaccanu chigli degliu bosco co gliu presidente novu della proloco. Azzeccanu puru chigli della coperativa co gli’avvocatu Richetto e Alberto Luzi, se dau una contata e capiscianu subitu che eranu pochi perchè gliu babbarotto era talmente rossu che portea sicuramente tanta gente. Se comenza a discute su comme poteanu esse chigli che eranu arrivati, chi dicea che eranu verdi , chi che teneanu tre occhi, chi giurea che gl’ era visti e teneanu 4 zampi. Se riuniscianu, gliu Sindacu, gliu Marescialle novu, la Salvati ( con tantu de segretaria Giusy ),Ivano co la figlia delle Matene e la Protezione civile e se fa n’assemblea sottu agliu commune, ci steanu pure Tony Fubelli, Lucianello, Peppe veccia , preche’ chigli alla piazza ci stau sempre. Chi dicea na cosa, chi ne dicea n’ara, tutti strillenno pe la paura, allora se decide che se te nea a ghi a parlà co chigli de Santa Anatolia perché issi eranu tanti , allora parte una delegazione , nsemmora alle autorità parte puru Fabio Zazzicchione , unu potente, comme se dice, fa sempre commudu e passenno pe la via nova arrivanu agliu pratu. Chigli dello bassu saputo degliu problema già steanu tutti riuniti denanzi alla chiesa, allora se ‘ncontranu agliu biviu e comenzanu a discute, chi volea attaccà dallo bassu , chi dallo ardu , chi dicea che tenea la Patrona Santa Anatolia, chi dicea che tenea la Madonna der Core, e Tonino gl’abbozzatore giustamente che tenea San Rocco pure compatrono. Pe risolve la faccenna ci volea calecuno che potea mette tutti d’accordu, allora comme succede alle favole ci volea un miraculu, e chi gliu potea fa se non du condottieri de livello co tantu de tonaca come armatura? E èsso che sopra alle scali del della chiesetta ce se mettanu Don Giovanni e Don Fabrizio., chissi te fau una bella e salata predeca e tutti zitti e mosca se r’appacianu. Gliu casu stranu è che arrivati addo’ steanu gl’invasori non c’hau trvatu nisunu ma ormai s’eranu alleati e hau fattu na bella festa tutti nsemmora e Jeranu è deventatu un begliu paese che t’è un po’ d’abballe e un po’ d’ammonte .

GLIU SPARU

Di Enrico Bucci
Voce narrante di Giuliana Di Florido
🥉3 Classificata - dialetto

Tu-tu-ru-tu-tu-tu-ru-tu, ma che è stu rumore? Ma è gliu tammurru de Luigi de Napulione che alle sei de matina ci fa capì che oggi NON è una domenica come tutte le altre: ma è una splendida domenica del 30 aprile 1944 ed è la Madonna del Cuore, che per i Geranesi è la festa più amata e sentita dell’anno. Ve putite immagina’ gliu fermentu che è commensatu comme minimu un mese prima pe repulì e abbellì il più possibile il paese. Gli artigiani, i calzolari, i sarti hanno lavorato come matti. Le femmone sti giorni agli cattapuni degli fossi; le lenzola e gl’abitucci colla ucata ihau fatti deventa’ comme novi. I maschi da giorni vanno carrienno gliu tufu per spiana’ la piazza. A na’certa tutti pronti pe’ la messa e la pricissione, le madri danno un ultimo controllo agli figli e alle figlie pe vede se cae piocchiu passeggiava sugli abitucci nóvi; le autorità davanti al comune sono pronte per il corteo; il commissario Manni con le furmiche nere e i furmicuni niri tutti addobbati (gli stivali lucidi che ti ci cechei!), tutti i nobili e le autorità in corteo verso la chiesa di Santa Maria. Don Domenico e Don Ottorino co gliu priore Costantino Felici, i confratelli co’ gli camici lindi e pinti ad aspettare il corteo delle autorità per poter cominciare la Santa Messa. (Facciamo un piccolo passo indietro al sabato, con la tradizionale Calata dove l’immagine del quadro della Madonna del Cuore si rivela al popolo di Gerano). Finita la Messa prende corpo la processione con un suo ordine stabilito. L’immagine della Madonna del Cuore sulla sua preziosa “mmachina”, un manufatto in legno massiccio tutto decorato e dorato. Lentamente si parte da via Santa Maria, passando davanti alla bottega del tabacchino de Giggio Spaccaprospari dove il profumo del sigaro toscano sovrasta quello degli altri pochi prodotti alimentari del tempo: baccalà, alici e saraghe...Subito dopo il macello dei Priori Vincenzo con l’inconfondibile odore delle carni; a destra il forno de Caterina . Tra canti e preghiere la processione continua, arriviamo alla bella piazzetta di Santa Maria, detta dei Carabinieri, a sinistra l’alimentari di Minucuccetta coi suoi profumi di baccalà, aringhe e conserva; la porta a fianco il macello de Priori, che sà di ciccia; sulla destra la Sezione Combattenti e Reduci de sor Moretti, poi l’edificio a lato dei Carabinieri con lo stemma della Casa Reale e la bandiera dei Savoia. Tutte le finestre sono adornate co’ le lenzola più belle e ricamate. Camminando camminando, rasente agli sepportici, se passa sulla destra davanti gliu carzolaru de Franschinu e Benedetto; e l'iaru de Armando gliu Zoppu che sanno di cuoio (in questi giorni hau lavoratu de bruttu!). Subito dopo il Comune con le bandiere al vento; se fa na curvetta e passimo denanzi l’alimentari de Gabriele; sulla piazzetta de corte il negozio delle stoffe de Marcello. Calìmo e, più da pei truvimo gliu carzolaru de Richetto, prima degliu sepporticu gliu macegliu de Michele Priori dove cae moscone ce fa capì che cae cosa è ravanzata. Passatu gliu sepporticu ce truvimo la farmacia de Massimino Manni; de fronte alla piazzetta l’Alimentari de Gastone. Si scende per via Borgo sopra gli Orti passando davanti alla fiaschetteria de Tommaso con l’odore degliu vinu fattu co gliu ruscigliuolu e la bottega degliu carzolaru Mariano Denofrio. Si arriva poi al bel fontanile fatto da Narcisio, che ha portato l’acqua corrente a Gerano, dove si possono abbeverare tutti gli asini e i muli di passaggio. Dopo il fontanile, a destra, due garage e sotto il muro, difronte ad un garage ci riponeva la Topolino il segretario. Denanzi alle case de chissi de Simone agliu tavulino addobbatu, ce se posa gliu machinariu della Madonna, così sti povereggli se poru rappusa’. Dopo la pausa se riparte tra preghiere e canti, arrivimu denanzi alla Chiesa de San Lorenzu, se fa la stretta della chiesa, che è il confine tra l’amministrazione della Diocesi di Subiaco e di Tivoli. Tutt’un tratto s'apre uno spettacolo! al centro della piazza un bellissimo tappeto floreale, la famosa Infiorata. La rappresentazione dei quadri comincia con l’omaggio alla Casa Reale col lo stemma Savoia, seguono quadri geometrici, poi il nome di Maria e per finire il Cuore. Sullo sfondo l’arco gotico di legno. Sulla destra l’orto de Binirde con la sua bella pergola d'ua, sempre pronto pe le cerimonie; a sinistra il palco con una fila di alberi di olmo che fa da cornice all’Infiorata; La piazza tutta alberata con il monumento dei caduti; sullo sfondo, per chiudere questo bellissimo quadro, i Monti Ruffi, le tre Mammelle e un piccolo paesino (che mò non me recordo comme se chiama!). Mentre la processione passa sopra al tappeto floreale, un fragoroso sparo ricorda che è festa; i furmicuni niri, atterriti, si guardano attorno per vedere se c’è un attacco degli alleati, le formiche nere spaurite con l’addome sotto le zampette se guardano in faccia, la mazzarella degliu Priore pella paura se pianta pe terra. Nessun attacco alleato, nessun aereo in vista, ma quattro ragazzacci de Gerano, Memmo Piripicchio, Ercole gliu Caccà, Bastianino e Bastiano de Simone; agliu ortu de Francescu sotto gli scaluni avevano preparato i mortai, poi passando pe le piaie, la Vigne boschi, gliu fossategliu, le Fontanelle, Colle Manto, inconsapevoli del rischio che correvano, rendono omaggio alla Madonna del Cuore – perché la festa senza gliu sparu è mezza festa! –. Facendo la strada fatta, tornano da Francescu e, da na botola comunicante con la casa rresciano agli scaloni; vanno in piazza tranquilli a partecipare anche loro alla famosa Sciarrata. Come dicono i Geranesi: “Viva Maria e chi la creò!”

LA SIRENA ERMELINDA

Di Desiree Ruggiero Categoria Favolosi Pulcini

C'era una volta una bambina di nome Asia, viveva in una casa al mare, andava in spiaggia e trovava tantissime conchiglie, vongole e telline. Un giorno aveva trovato una sirena di nome Ermelinda che era arrabbiata perché il mare era sporchissimo e Asia l'aveva aiutata a ripulire l'Oceano, così la sirena per ringraziarla le regalò una conchiglia magica che esaudiva ogni desiderio e Asia la ringraziò. Asia ha chiesto alla conchiglia magica che il mare doveva essere sempre pulito.

RICORDI DI UMILE GENTE

Di Giuseppe Turianelli

Erano premi promessi da tempo. Tata, così chiamavo mio padre, finita la scuola, mi trasferiva dal paese in campagna, con la promessa di partecipare alle ricorrenze delle festività religiose limitrofe, erano le nostre vacanze estive. Nella mia allora giovane mente, rimanevano impressi quei dolci ricordi. “Fra 2 giorni si festeggia Santa Anatolia”. Così se ne uscì un giorno Tata mentre consumavamo in campagna, al fresco sotto la pergola, il frugale pranzo giornaliero: “ci saremo anche noi alla festa”. In me cominciava l’impazienza. Subito iniziavano i preparativi, ricordo che anche il cavallo era bardato a festa: masto, gnaccoli e capezza, tutto nuovo, doveva fare anche lui la sua bella figura. Dopo una notte insonne, alle prime ore del giorno, ancora buio pesto, si partiva. Avevo forse 9 anni quando Tata mi prendeva ancora insonnolito e mi metteva dentro un biconzo adibito a letto, così bilanciavo l’altro adibito a dispensa. Si era proprio così, la mamma prendeva posto e portava il cavallo, Tata in groppa, e io dentro il biconzo, e via verso Gerano, verso il pratone di Sant’Anatolia. Dovevamo percorrere una trentina di km, facendo accorciatoie di stradine e viottoli campestri, era buio come la pece ma ogni tanto la luna piena, vincendo le nuvole, ci illuminava, solo lui ricordava quei sentieri. Di tanto in tanto si sentiva il richiamo di qualche civetta, il monotono canto dei grilli, il gracidare di rane, il fruscio di animali disturbati dal nostro passaggio; poi il canto di un gallo! L’alba era vicina. Io insonnolito accompagnavo l’andatura del cavallo ciondolando la testa, quando improvvisamente Tata esclamò: “Gerano, Gerano, ecco Gerano. Siamo arrivati!” I primi raggi del sole illuminavano, come se prendessero fuoco, le umili case addossate alla chiesa con il suo campanile, sembrava un paesino da fiaba adagiato sul colle. Scendendo improvvisamente la valle di Sant’Anatolia: era come me l’avevano descritta. Il prato bagnato di rugiada già veniva conteso da commercianti e artigiani agricoli, iniziava un concerto di animali, chi grugniva, chi belava, chi nitriva, ecc ecc, era veramente una fiera che si perdeva nel tempo. Tata mi tirò fuori dal biconzo, legò il cavallo a un albero e come prima cosa facemmo visita alla piccola chiesa dedicata a Sant’Anatolia, gremita di persone per lo più contadine. Pregavano la Santa, alcuni ad alta voce, affinché proteggesse i loro raccolti e di averli in abbondanza. Tata mi raccontava nuovamente la storia della giovinetta, dei suoi miracoli e di come era morta. In quel periodo c’era tanto analfabetismo, così con le pitture, con i quadri, con i disegni, i fedeli venivano a conoscenza della vita di quella fanciulla. Partecipammo alla Santa Messa e alla Processione con tanta devozione. La mamma pregava Anatolia affinché ci proteggesse da ogni male. Ci facemmo largo tra la gente per tornare dal nostro cavallo, lasciato custodito a un vecchio amico di Tata. Una volta ci si aiutava; ricordo che durante il pranzo si scambiavano i loro prodotti, era una gara; chi metteva il vino, chi i formaggi, chi i salumi, chi il pane fatto con la farina di un grano che non ricordo il nome; ci si scambiavano consigli sul lavoro, ecc. Commercianti e artigiani ad alta voce invitavano a comprare le loro merci. C’erano anche gli zingari, questa era la loro fiera, si riconoscevano dal loro abbigliamento caratteristico, specialmente quello delle donne, ma Tata me ne parlava con una certa cautela. Questa era la fiera di Santa Anatolia, chi veniva per comprare s’affaccendava tra i venditori per i migliori acquisti. Tata comprò una cupella, una cavola, un pelliccietto e per me un piccolo di legno che attorcigliandolo a uno spago e poi lanciato, girava! Un’impresa non facile. Una stretta di mano definiva l’accordo del prezzo. La sera venne presto, l’indomani bisognava partire di buon’ora per evitare il caldo del giorno. Abbracci e arrivederci non mancarono. Dormimmo quelle poche ore con la testa sotto un verde ombrello di incerata comprato qualche anno prima in quella stessa fiera. Tornammo verso casa con un po’ di nostalgia e seguitai il mio sonno dentro il biconzo. Non tornai più alla fiera di Sant’Anatolia, Tata pochi mesi dopo, finita la vendemmia, come ci dissero per consolarci, passò a miglior vita, e per me e per mamma non bastò la vicinanza di parenti e amici, fu un immenso dolore che solo con tanto tempo si affievolì. Io che racconto sono la terza generazione, il nipote di Tata, custodisco gelosamente questi ricordi tramandati da mio padre. Quest’anno 2024 sono andato alla Fiera di Sant’Anatolia per curiosare. Volete sapere la mia opinione? Quella di una volta era veramente una fiera da favola da tramandare alla nuova generazione.

FIERA DI SANTA ANATOLIA

Di Maria Luisa Balla Voce narrante di Maria Rita Censi

Tra la folla variopinta e animata sul prato di santa Anatolia, si incontrano tre ragazzi di etnie diverse, con tradizioni e credenze diverse tra loro. Anya è una giovane Rom, attratta dalla magia, curiosa, che sogna di diventare una veggente, Boris invece è un ragazzo Sinti, che ha un talento per percepire il mondo naturale e sogna di diventare un cacciatore esperto, Mario invece è un ragazzo di Gerano, affascinato dalle storie e dalle leggende, le sue conoscenze sono influenzate dalle tradizioni del suo paese, dove le streghe sono viste con diffidenza. E' sempre stato affascinato dalle storie che gli raccontava sua nonna sulla fiera. Storie di giocolieri, di mangiafuoco e, soprattutto, di streghe o strolleche come le chiamavano lì. Le streghe, secondo le vecchie leggende, erano donne cattive e misteriose che volavano a cavallo di una scopa e gettavano malocchi. E allora parlando con i due amici Mario sbotta così: - Ahò!!! Tutti a Ieranu tinìmu paura delle strolleche! 'Ste schifuse se ficcanu daventru alle case e ai stallùcci e arrobbanu lo latte, le ova, le cagljne, i pucinègli e ai chiattarelli mèttanu paura cò i strilli che fàu!! Allora a casoma 'nserremu tuttu, mittimu le cottorelle deretu alle porte pe' fa' caciàra se càecùnu rentra, spignimu tutte le cannèle e prighimo 'nzinocchiati la Madonna. - Boris e Anya si fissano perplessi perché in effetti anche loro avevano sentito raccontare storie simili nella loro tribù. Proseguendo il cammino in mezzo al prato, i tre ragazzi incontrano casualmente una nomade anziana con lunghi capelli bianchi e un viso rugoso che indossa abiti colorati e strani amuleti. Anya con gli occhi scintillanti di curiosità si dirige verso la misteriosa figura e, con voce tremante, le domanda: - Sei una strega o come dice Mario una strolleca? - -Sì, bella me', sò 'na strega! Ma non te vojo fà male. Le streghe non sò cattive, lo sà? Ci sò streghe bòne e streghe cattive, proprio come ci sò bambini bòni e bambini cattivi. - Da non credere alle proprie orecchie!!!!! Una strega buona? Era mai possibile? La donna invita i tre ragazzi ad avvicinarsi e inizia a tessere un affascinante racconto, svelando loro un mondo fatto di erbe dalle proprietà curative, di antichi riti e di misteriose previsioni. Parla con tale passione e convinzione che i ragazzi sono travolti da un'ondata di emozioni. E per aumentare la loro meraviglia, pronuncia parole incomprensibili, mimando gesti solenni, come se stesse facendo un incantesimo potente. Gli occhi dei ragazzi si spalancano pieni di stupore e di timore. Ma ben presto comprendono che la donna non è la strega cattiva dei loro incubi, ma una persona speciale, con un dono straordinario che utilizza per aiutare gli altri e proteggere la natura. Quella fiera sta già diventando un ricordo che li accompagnerà a lungo perché si rendono conto di aver superato le loro paure e hanno scoperto un'amicizia inaspettata. Ogni volta che ritornano col pensiero a quella sera, sorridono al ricordo di quella donna e delle sue parole enigmatiche. La vera magia non consiste solo negli incantesimi e nelle leggende, ma nei gesti semplici e sinceri come un sorriso, uno sguardo complice o un'amicizia nata inaspettatamente. La fiera di santa Anatolia, con le sue tradizioni e i suoi giochi, è un luogo incantato, ma la magia più grande è quella che nasce dal cuore delle persone quando supera il pregiudizio e si apre alla diversità.

C’ERA UNA VOLTA FRANCISCU MMERDA

Di Costantino Felici Voce narrante di Giovanni Federici

Da quello che che mi hanno raccontato c'era una volta, tanti anni fa un personaggio, lungo, magro, allampanato, non so se stupido o facente stupido . Sposato, ma non ricordo il nome. Già sagrestano dell'allora parroco della chiesa di San Lorenzo Martire a Gerano - Don Domenico Felici . Il racconto ci riporta al dopoguerra quando gli sfollati di Cassino (ricordiamo che fu completamente distrutto dai bombardamenti degli Alleati - monastero compreso)- Alcuni di questi sfollati vennero a Gerano e in fila chiedevano un po' di minestra e altro. A loro, sotto mentite spoglie si affiancò Francesco. Quando arrivò il suo turno alla richiesta dell'inserviente che aveva un pentolone di minestra e delle ciotole lui rispose, col suo modo di parlare che era uno “sfolato di Tasino” - Fu riconosciuto e deriso. Ma ebbe comunque una razione di minestra. Poi la moglie morì lasciandogli una figlia - Si risposò con Liina chiamata Linuccia ( non era di Gerano e non parlava il dialetto). Al matrimonio quando il parroco gli chiese se era contento di prendere in sposa Lina, lui rispose col suo modo di parlare "so tontentu se sa ". Passavano gli anni e Lina la sua seconda moglie non potendo avere figli gli chiedeva spesso "Francesco, quando mi dai un pupo? ... Francesco , quando mi dai un pupo?” All'ennesima richiesta lui gli rispose "Va aju tetaru e fattiju de teta " (Va dove c'è l'argilla e fattelo di creta). Come sagrestano accendeva e spegneva le tante candele- Suonava le campane non ancora elettrificate. Neanche l'organo era elettrificato, per mandare l'aria alle canne c'era il mantice che veniva azionato a mano da un addetto . Le domeniche alla miss'urtima, quella delle 11, guardando in alto verso l'organo, si intravvedeva Checchino l'organista e una persona che appariva e scompariva dietro la balaustra. Era Francesco che a fatica azionava il mantice. Poi in seguito diventò il sagrestanmo doi Don Giuseppe che gli diede il nomignolo di "Franciscu mmerda" Lo seguiva dovunque andasse, diciamo come uomo di fatica. Era un personaggio spassoso che bonariamente prendevano in giro chiamandolo col suo nomignolo. Lo stesso faceva mia madre da ragazzina che insieme a mia zia un giorno si trovavano in chiesa prima della funzione e lui che doveva accendere le candele aveva dimenticato i fiammiferi- “Chiatte jateme a pijà i proppari “ Che? “i proppari”. Mia madre e mia zia cominciarono a ridere a crepapelle e lui di risposta "che ridite che ridite tetine " e giù altre risate a crepapelle . Poi Don Giuseppe salì in cielo e fu sostituito da Don Giovanni e Francesco diciamo andò in pensione . La sua casa era vicino la chiesa di San Lorenzo . Per qualche tempo non si vide . Andò ad abitare con la figlia. Lo rividi su una carrozzina accompagnato dalla figlia e dal nipote . Adesso Franciscu mmerda starà in Paradiso col suo nome Francesco a far da compagnia alla sua prima moglie e Lina o Linuccia e al suo amato parroco Don Giuseppe .

L’UNIONE FA LA FORZA

Di Fiorella Di Giovambattista Voce narrante di SuperFiorella

C’era una volta…….. Mò recomenzimo “ci stea un paese rendriccatu……” Ma chi sei tu? Di cosa ti impicci? Ahhhhhhh mò chi so jeo, non me recunusci?, solo quanno te servo me circhi? Comme diciaristi tu: so il tuo alter ego. Puru chist’annu recominzimo colle favole. Da quanno è arrivata la lapenne, lupenne, comme se chiama, tra scatole de latta e favole ve stite a rembambì. Primo, si chiama Marina Durand de La Penne. Secondo, il ”museo delle scatole di latta” è unico in Italia, quindi dovremmo essere onorati. Terzo, ci hanno tacciati di “cottorellismo” perché pensiamo solo a cucinare e a mangiare in piazza, una volta che vogliamo acculturarci non va bene? Dunque, ricominciamo, mi stai confondendo: al mio paese…….. Ci stau più pricissiuni che cristiani, una pe ogni santu degliu calendariu, ma ficiate comme a Cirritu, loco ci sta la Madonna delle Grazie, San Sebastianu e San Sabastianu doa, stop. Nui, la Madonna del Core, vabbè guai chi cella tocca, gliù poveregliu de San Rocco che resce il 16 agosto a mizzuggiorno, co chello callu, accantu ju vidi che recaccia ju fazzulittu, s’assucca e co gli occhi revotati agliu ceru pare che dice “addò ma mannatu jecchi”. Ci sta Santa Natolia, chella de pricissione te tenco da dì è caratteristica, prima de tuttu se fa collo friscu, se parte da Santa Maria e se cala a pei fino a Santa Natolia. Quanti recordi tengo de quanno ero chiattu, ci stea la fiera addò venneanu tutte le specie de alimali: porci, asini, pecora, cunigli ecc., all’epoca veneanu puru i zingari, na decina de giorni prima della festa se piazzèanu agliu pratu denanzi alla chiesa, razzièanu tuttu lo fore dei dintorni e il dieci a matina senne rejeanu. Arriveanu cogli carritti, le femmone colle varnella longhe e tutte ncoragliate, jommini co certi baffacci e cappellacci larghi, che tello dico a fa. Un giorno me recordo, stea affattatu agliu balcone de casa, quanno sottu agliu fontanile dell’Ara de Marzio, se presentanu na decina de zingare, co tutti i figli, rossi, micchi, mezzani, i spoglianu, i ficcanu daventru agliu fontanile, na sorrodata, na lavata agliu muccu e tocca. Che tempi, mò alla fiera ialimali non ci stau più, ju porcu ju trovi a porchetta,i zingari non veu più, che c’è remastu? sulu ju tagatà. Anche io ho dei ricordi della processione, adesso si porta la reliquia, quando ero piccola portavano la statua della Santa, poi il 10 luglio finita la messa e la benedizione delle macchine, la Santa la mettevano su un camion e la riportavano in paese, era molto più suggestiva. Non se scapiglièa? Sei sempre il solito cafone. Scusame, reficiamo pace, alla fine mpò jeo, mpò tu la favola la simo accroccata. Approposito de cottorella, rejamocenne cà me da fame, e quanno reimu marititu attacca na pippa do ore a predecà che nvece de fa a magnà va girenno e pensi a tutt’aru. Va bene, facciamo pace, anche perché, pur essendo diversi insieme ci compensiamo e come dice il proverbio “l’unione fa la forza”.

UNA STORIA A KM 0

Di Simona Cavallo

Questa che vi vado a raccontare è la storia di Luigi, che non vedeva l’ora di andare in pensione per comprarsi una casetta in mezzo al verde, lontano dal caos della città; ma scoprirà a sue spese che non c’è rosa senza spine, che non è tutto oro quel che luccica, che la terra è bassa e che soprattutto l’erba cattiva non muore mai. Insomma dopo tanti sacrifici finalmente aveva coronato il suo sogno: una piccola casa con un bel giardino che trasformò subito in un orto, fantasticando su ortaggi gustosi a km 0. Così armato di zappa, concime e semi iniziò felice la sua nuova avventura e ce la mise proprio tutta, ma nonostante il suo impegno le formiche erano ormai padrone del terreno, le cavolaie volavano felici dappertutto, l’istrice aveva scavato le patate e le lumache facevano scorpacciate di foglie: d’altronde gli animali si erano passati la voce e tutti accorrevano all’orto di Luigi che di tutti i contadini era il più inesperto. Come se non bastasse la sera si coricava con la schiena rotta e il sonno era pieno di incubi in cui sognava il suo comodo supermercato sotto casa pieno di verdure deliziose. Laura una delle vicine, vedendolo cosi abbattuto, la domenica si presentava con le tagliatelle appena fatte e Maria, l’altra vicina, lo invitava sempre a prendere il caffè con il dolce appena sfornato. Insomma, l’orto non faceva per lui ma se avesse provato con i fiori? E cosi fece. E fu subito un tripudio di panzè, di bocche di leone, di rose e gelsomini, di gerani e gladioli, tulipani e ranuncoli gialli, fiori azzurri e garofani e lavande. Ogni anno ne regalava in abbondanza per l’infiorata e non c’era domenica in cui non si presentasse da Laura e Maria con un bel mazzo di fiori: il calore e la simpatia dei geranesi lo aveva conquistato e decise così di godersi la gioia più bella, quella di un buon vicinato a km 0.

ANIMALUCCI

Di Enrico Spagnuolo Voce narrante di Maria Rosaria Placidini

Mamma mo basta cogliu Baccalà, me voglio magnà na vota i spaghetti cogliu Astice. Gliu Astrace, comme se chiama, custa troppu, se propriu te posso fa gliu sugu co gli RANCI. Tocca cala abballe agli fossu. Azza un sassu e vedrai che sottu è pinu de Ranci. Tuttu contentu so ghitu agliu fossu co nsicchittu. Azzo un sassu e, era vero, sottu ci steanu cinque Ranci, begli rossi. Un po' tenea paura che me pizzicheanu co le tenaglie, allora aio pigliatu do foglie de castagna e gl’ aio acchiappati. Che soddisfazione, me sentea un grande pescatore, e che spaghetti bboni. Gliu fossu, che stea agliu bosco, oltre agli Ranci, ospitea pure le RANOCCHIE e gli CAPOCCI. Chisti non se ficeanu acchiappà, ma le Ranocchie non ci scappeanu. Gliu specialista era Pallocco, doppu che l’acchiappea, gli ficchea na cannucciella uncuru e le abbottea. Ma era un regazzinu bbonu e dopo le ficea sgonfià e le lassea libere. Me stea a scordà le FENAROLE, un serpentegliu argentatu. Na vota me nne so messa una nsaccoccia e po doppu so ghitu a servì la messa comme chirichittu. Mentre Don Giuseppe stea a fa la predeca me ssè scappata la Fenarola, e sé nfilata sottu agli’ altare. Me recordo sulu un sorte scappellotto de Don Giuseppe. La Fenarola la racchiappata Franciscu gliu sacrestanu perché le vecchie steanu a strillà. Pe nui regazzini la regina degliu bosco era la NIZZURA, era un suricittu ruscittu tantu simpaticu. Chi la riuscea a catturà era gliu più forte della compagnia. Ieo non ci so mai riuscitu, però na vota Anacleto Gliu’Ossu, doppu che la acchiappata me la fatta accarezzà, era morbida morbida, c’emo giocatu un po' e po l’emo lassata libera. I MERULI, chigli niri co gliu becco arancione, eranu bellissimi. Gianluigi dicea che se poteanu allevà comme gli canarini e gli pappagalli e mette daventru alla gabbia. Aremo pure costruita na gabbia co gli bastuni de castagna, era bella rossa, ma a parte un PASSARITTI, che è scappatu subitu, sta gabbia na mai vistu un Merulu, cor cavolo che se ficeanu acchiappà. Stessa cosa pe le VOTTACCE, serpenti che se magneanu tuttu. Ie delle Vottacce tenea paura, perché na vota n’aio vista una che s’era nghiuttitu un ROSPU rossu comme un pallone. Mentre i SAVETTUNI m’eranu simpatici, longhi longhi e fregnuni. La LIPERA, chella, no, quella era pericolosa, papà me dicea de scappa subitu se la ncontremo. Ieo la LIPERA l’aio vista na vota ficcata daventru a na buttiglia, l’era acchiappata Luigino la Guardia, che gl’era levatu pure lo velenu e l’era missu daventru a na siringa. De cillitti me recordo le RUNDINELLE all’Annunziata, erano centinaia e centinaia, e teneanu i nivi sottu agliu tittu de San Lorenzu. Nui regazzini giochemo a pallone alla piazzetta, e le Rudinelle ci sfioreanu gliu capu. Non solo, na vota una m’ha cacatu sopre alla maglietta e mamma me c’ha remenatu sopre, ari scappellotti !! Nvece Franco Cicchittu s’era fissatu che tenea da acchiappà do PALOMMELLE agliu campanile de Santa Maria. Finita la funzione simu iti zitti zitti agliu campanile, simo azzeccate do rampe de scali e cominzimo a sintì: Coocco Cooco. Cicchittu portena na saccoccia, era convintu de fa la caccia. Le Palommelle so risciute dalle buce e so scappate perchè glieo so cascatu e aio strillatu. C’ha scopertu Don Giovanni e c’ha fattu sonà le campane con le corde pe na settimana de seguito, e me sembra che c’è scappatu pure n’aru scappellotto. I ZIPPIUNCURU, arriveanu prima della Fiera, ce nne steanu tanti, e nui regazzini ficemo a gara a chi ne acchiappea de più. Le femmone teneau paura allora e gli ficchemo mmezzu agli capigli. Pure loco me recordo cale scappellotto, perché le madri delle regazzine glieanu a reclamà a mamma. Certe sere d’estate arriveanu le CICCIULAPENNE, gliu paese non era illuminatu comme mo, e se vedeanu bene. Che spettacolo, pe nui era comme vedè na magia, ficeanu limpe lampe s’appicceanu e se smorzeanu, e ce lle resognemo pure la notte. I regazzi de oggi gli animali gli vedanu sulu alla televisione, ar massimo teu gliu cane o gliu vattu,. Nui regazzi de na vota, tre misi de vacanze ficcati agliu bosco, gli animali gli vedemo dar vivo, in fondo pure nui aremo ANIMALUCCI.

MIRACOLO A GERANO

Di Ivo Bevilacqua

«Polly svegliati, abbiamo trovato Manfred!». «Mamma, ma sono le tre di nott… Manfred? Proprio quel Manfred?» «Sì, dai, muoviti, finalmente potrai ringraziarlo». «Ma dove?». «Pare sia andato a vivere a Gerano, me lo hanno comunicato quelli del branco delle Eolie, con gli ultrasuoni…». «Ma mamma, se è quel Gerano vicino a Roma, in collina, noi siamo delfini… come facciamo ad arrivare fin lì?» … «Vergognati fannullone, che ti ho regalato a fare Googledolph a Natale? Datti da fare e trova il modo. Sai che lo dobbiamo a Manfred, che ti ha salvato la vita». «Hai ragione mamma, dunque vediamo…Gerano… Gerano…Eccolo! …Cavolo, che bel paesino! Arroccato su una collina, circondato da boschi di castagno, ma nella vallata scorre il Giovenzano, un piccolo torrente… interessante! Mamma l’inizio è facile. Basta risalire il Tevere e prendere la deviazione dell’Aniene… ma…». «Ma cosa?» chiese Doris. «È che arrivati a Vicovaro l’Aniene va verso Nord». «E tu lascia l’Aniene e cerca le falde acquifere, i canali di irrigazione, e le acque vadose. Segui i segnali della tua ghiandola radar, che ce l’hai a fare». «Sì mamma, però una volta lì io vedo solo le condotte delle acque reflue del borgo…» «Embè? – disse Doris – Tàppati il naso, prendi un bel respiro, e fatti questi cento metri nella condotta…Sempre acqua è, anche se un tantino sporca. Per Manfred questo e altro!». E così, in una notte tiepida d’aprile, Toni e Rocco, due vecchietti che battevano l’insonnia giocando a carte sotto i portici della piazzetta, udirono uno strano rumore metallico, come di ferro che struscia sulla ghiaia. E videro che il tombino lì vicino si stava aprendo, e un essere argentato si presentò…. «Buonasera, mi chiamo Polly» disse il delfino appoggiandosi con le pinne sul bordo rotondo del pozzetto. «Buonasera a lei». «Sto cercando Manfred, è importante» … «Manfred a quest’ora, è una parola!» esclamarono all’unisono i due. «È che Manfred mi ha salvato la vita, tempo fa -disse Polly- mentre era in vacanza all’Elba. Vide che ero impigliato. Prese a tagliate le maglie di quella rete abbandonata, una per una, con calma, e mentre le tagliava mi accarezzava. Una volta libero io feci cinque salti per salutarlo… Sentivo che anche lui mi salutava ridendo forte. Poi non seppi più niente di lui … Sono anni che lo sto cercando per ringraziarlo» … «Ma non si chiamava Manfred anche quello della gru?» chiese Toni... «Sì ma è roba di secoli fa- rispose Rocco- sarà stato il suo trisavolo… quello che salvò una gru da quella rete invisibile dove si era impigliata… la liberò col suo coltellino» … «Forse è per questo che una gru è disegnata sullo stemma del paese». «Mah, sarà forse perché il monte di tufo su cui sorge è simile alla greca Montagna Delle Gru…- disse con sussiego Toni – che si chiama Gheranja». «Signori, scusate, io devo trovare Manfred» disse Polly… «Sì, vero! Chiediamo al parroco, lui forse sa dov’è». Bussarono, il parroco si affacciò «Padre, ha per caso visto Manfred? Il nostro amico Polly lo sta cercando». «Scendo subito». Il portoncino si aprì «Ciao Polly, piacere…ho visto Manfred ieri e l’altroieri fare diversi viaggi avanti e indietro con la sua Apetta per portare i fiori per l’infiorata della Madonna del Cuore... l’infiorata più antica d’Italia, sai?». «Sì, l’ho letto…» fece Polly. «E sopra l’infiorata ci passa l’immagine della Madonna, che viene fatta scendere dall’altare della chiesa di Santa Maria Assunta, per offrirla alla venerazione dei fedeli… è la “calata”» disse il parroco con fervore «ma adesso trovare Manfred…è una parola!». «Chiediamo alla Mary, che ha il museo delle scatole di latta più famoso del mondo» propose Rocco. Bussarono. Mary si affacciò e ascoltò… «Scendo subito». «Scusate tutti, non vorrei disturbare… potreste darmi un po’ d’acqua per idratarmi e … ripulirmi?» implorò Polly. «Ma certo, scusa se non ci abbiamo pensato prima! Ecco qua una prima bottiglia». Polly si bagnò e bevve di gusto «Che buona» disse. «E certo – disse il notaio che era sceso dopo essersi affacciato- è dal 1774 che Gerano ha l’acqua corrente, da quando fu costruita la fontana della piazza di San Lorenzo». Il sindaco, che si era svegliato per tutto quel chiacchiericcio, si presentò e ascoltò il racconto. «Manfred a quest’ora». «È UNA PAROLA!» dissero tutti in coro… «Passiamo per Porta Amato e cerchiamo a valle, fino alla fontana del Ciocio» fece il sindaco «…e portiamo ciascuno una bottiglia d’acqua per Polly» … «Allora andiamo -fece il notaio – pinne in spalla, Polly, vedrai che te lo troviamo il tuo Manfred!» E così, dopo quella tiepida notte d’aprile, tutti ricordano quella allegra combriccola di bella gente di Gerano, dove tutti parlavano di Manfred ma nessuno lo aveva mai visto da vicino. Bella gente che cercava in tutti i modi di dare una mano per realizzare il sogno di Polly, il delfino che era uscito da un tombino, per ringraziare Manfred che lo aveva salvato da un crudele destino.

LA RICEVUTA

Di Armando Santarelli tratta dai racconti di una “Ragazza del 1927” Voce narrante di Giovanni Federici

I tempi so’ tosti, la fame è tanta, eppo Natolia e Franciuscu teu cinque figli… Lavoranu, s’arrangianu, ma quanno si natu poveregliu tutti i giorni è un patimintu. Pe’ furtuna ogni tantu arrivanu le feste. Fra pocu è Pasqua, e caleccosa de più se remeddia, ma ‘sti giorni Natolia non sta tantu be’, e pella prima vota a fa’ iu giru dagli signuri ci manna iu maritu. “Che tenco da fa’?” iaddomanna issu. Gnente, tu bussa alle porte de chigli che te dico, e quanno te ropranu digli “Bongiorno e Bona Pasqua”. “Sulu chesto?” “Sulu chesto”. Franciscu fa comme ià ittu la moglie. Se ‘ncammina, bussa alle porte degli più ricchi de Jeranu e quanno gli rropranu gli dice: “Bongiorno e Bona Pasqua”. E chigli responnanu “Buongiorno Francesco, e Buona Pasqua pure a te e famiglia”. Quanno Franciscu revà alla casa, Natolia iu guarda cogli occhi scoppati: “Ma non tau datu gnente?” “Ennò, hau respostu e basta”. ”Esso, jeo lo sapea, non si bonu a fa’ gnente. Me cci vaio da sola”. Natolia se da ‘na rassettata agli capigli, se va a cagna’ e comenza a fa’ iu giru egli signuri. Quanno revà alla casa, sbutica un zenale de robba sopra agliu tavulinu. “Lo vidi comme se fa’?”, dice a Franciscu, “Mezza iornata, che c’è vulutu? Mo però me rappuso”. Se nne va denanzi agli focu, se sede e allarga un po’ le zampi”. Franciscu i va vicinu: “Sta’ a rassuccà la ricevuta? Tell’hau palonta, evvé?” Iu giorno doppu, Natolia respartì caleccosa puru alla sorella, e figgiuru tutti ‘na bella Pasqua. Perché spissu è più facile remmeddià le cose da un poveregliu che da unu riccu.

TACCO 12

Di Pina Mentella Voce narrante di Giovanni Federici

Nel vivace paese di Gerano, Rosetta e Giovanni vivevano sereni nella casa dietro la chiesa dell’Annunziata. Lei cucinava fettucine, gnocche e strozzapreti, lui si sentiva fortunato ad avere una moglie che non si lamentava mai. Una mattina nella mente di Giovanni affiorò un’idea molto originale, fu così che prese la corriera e partì. Dopo qualche ora tornò al paese con un pacco sotto il braccio, entrò in casa lo posò sul tavolo e chiamò la moglie. Lei arrivò e notò subito una scatola dorata con in cima un bel fiocco, sarà una torta penso tra sé e sé. “Apri” disse Giovanni visibilmente eccitato. Lei con le mani impacciate la aprì e rimase stupita nel guardare il contenuto. Nella scatola c’era un paio di scarpe rosso fuoco con un accattivante tacco 12! “Dicono che vanno di moda, lo sai che per te voglio il meglio! Sarai bellissima! Tutti ti devono guardare! Cosa hai da fare questa mattina? “ esclamò emozionato Giovanni. Rosetta con l’animo sottosopra per quel insolito regalo farfugliò: “ Devo andare da Francesco per comprare la coppa e da Alessandro per la farina, ma, “Giovanni mio lo sai che io non so indossare queste scarpe…sono troppo belle.” “Tu puoi tutto mia cara” le rispose Giovanni. Qualcosa che non pensava di avere si accese dentro di lei…La Vanità! Prese le scarpe e, poiché fisicamente era un po’ abbondante con fatica iniziò a calzarle. Appena l’impresa le riuscì si alzò in piedi goffamente, sentiva la sua testa girare, Giovanni le prese la mano per darle coraggio e continuando a guardarla prese lo scialle e glielo mise sulle spalle. Rosetta travolta da tanta attenzione si lasciò condurre verso la porta, prese la cesta per la spesa, la pose sulla testa, come faceva la madre prima di lei. Appena fuori iniziarono i guai, con la cesta in testa, il tacco 12 ed il suo abbondante corpo non era affatto facile mantenere l’equilibrio sui sampietrini. Rosetta con difficoltà, incespicando di qua e di là, camminando attaccata ai muri delle case e facendosi in continuazione il segno della croce raccomandandosi alla Madonna, riuscì ad arrivare da Francesco che, vedendola tutta sudata ed arruffata tentò di nascondere una risata dietro un” Buongiorno Rosè cosa vi è successo? “ Lei cercando di camuffare la sua difficoltà rispose con un filo di voce” Sor Francè fatemi la cortesia, tagliatemi tre etti di coppa” Nel mettere il pacchetto nella cesta, Francesco, che aveva adocchiato il tacco 12, ridacchiando sotto i baffi esclamò “Rosè vi avvicinate con la cesta? Oggi non ci arrivo con il braccio…mi devo essere un tantinello abbassato” “ Può darsi Sor Francè, può darsi”. Appena fuori Rosetta buttò un occhio alla piazza e sospirò. Nelle orecchie le risuonava quella frase “ Tutti devono vedere quanto sei bella”. Prese coraggio e s’incamminò. All’altezza della farmacia il dott. Infantino che era lì fuori, le chiese :”Vi volete sedere due minuti? Quelle scarpe sono belle però vi vedo un po’ in difficoltà…” “ Al mio Giovanni piacciono tanto ed anche a me” rispose stizzita Rosetta che stringendo i denti riprese il cammino. Arrivata da Alessandro notò con terrore una fila di donne a fare la spesa ‘sarà dura ma la farina mi serve’ pensò tra sé e sé. Nel frattempo tutti avevano adocchiato quelle scarpe e l’unica che ebbe il coraggio di farle i complimenti fu Fiorella di Mario pirata che esclamò: “ Rosè che belle scarpe che portate! Ma non vi fa fatica a camminare su questi sanpietrini? “No, no”rispose prontamente Rosetta “ Me le ha regalate Giovanni mio “ puntualizzò con orgoglio. “E poi chi bella vuole apparire…”. Prese la farina, la mise nella cesta e disse “ Alessà segna va! “. Con tutte queste sensazioni si avviò verso casa ma sfortuna volle che, arrivata vicino alla fontana in piazza, un tacco della scarpa s’infilò in uno dei pochi buchi del selciato richiamando così l’attenzione delle donne che, sedute, controllavano il viavai della gente. Con il movimento che fece per uscire da quel impiccio cadde con la faccia a terra mentre la cesta rotolava perdendo farina e coppa, tra lo stupore e le risate delle pie donne. Rosetta velocemente si rialzò ed in preda alla vergogna raccolse la cesta, si tolse le scarpe e, verde di rabbia zoppicando sui sampietrini raggiunse la casa, dove un ignaro Giovanni la accolse con un sorriso chiedendole: “Allora, hanno invidiato le tue scarpe rosse? Eri bellissima !!!” le disse gonfio di orgoglio. Rosetta, senza fiatare, posò la cesta e le fece un mezzo sorriso. Solo allora Giovanni si accorse dei due denti che le mancavano. Lui scoppiò in una fragorosa risata perché, malgrado quella finestra in bocca, l’adorava. Rosetta al culmine della rabbia prese le scarpe e gliele tirò con tutta la forza che aveva. Solo più tardi, quando le acque si furono calmate, il povero cristo si avviò triste verso la farmacia per farsi medicare quel bernoccolo che spuntava sulla sua testa. Rosetta rimase ancora qualche minuto a pensare, poi sbattendo la porta alle sue spalle si diresse verso la chiesa di San Lorenzo, dove sperava di trovare don Giovanni per confessargli il suo peccato di vanità. Lo trovò e si liberò di quel peso, rammaricandosi per aver ceduto ad una tentazione inutile che oltretutto le era costata ben due denti davanti! Poi scoppiò a ridere pensando a quando avrebbe presentato il conto del dentista al suo Giovanni. Questa sensazione la fece sentire così leggera che si mise a volteggiare tra i santi ed i banchi della chiesa e, tra lo stupore di Don Giovanni, a voce alta gridò :”Queste si che sono soddisfazioni “.

GLIU SOGNO DE’ ADELE

Di Nella Rozzi Voce narrante di Anna Poggi

GLIU SOGNO DE’ ADELE (PARLIMO DEL 1923) CI STEA ‘NA VOTA A GHIERANU ‘NA FEMMONA, SE CHIAMEA ADELE. CHESTA SE SPOSA’ A VENT’ANNI CO ‘NCERTU ‘NGELINU DE CHISSI DE “MEZZA PIZZA”. ADELE NON TENEA ‘NA CASA SEA, ALLORA ‘NZEMMORA AGLIU MARITU SE NE DOVETTE I ABITA’ COLLA SOCERA MARIANTONIA CHE TENEA LA CASA SANTA MARIA. DOPPU NOVE MESI NASCI’ LA PRIMA FIGLIA ‘NTONIA, PURU ESSA DE “MEZZA PIZZA”. FINO A IECCHI TUTTU BENE! ADELE PERO’ TENEA ‘N SOGNO, SE VOLEA COMPRA’ ‘NA CASELLUCCIA PER CUNTU SEO MA A CHIGLI TEMPI I SORDI NON CI STEANO PRECHE’ SE LAVOREA ‘N CAMPAGNA. ADELE CHE ALLATTEA LA FIGLIA GLI VENNE MMENTE CHE PE GUADAGNARESE CAE SORDO POTEA I’ PE’ BALIA A ROMA (SE USEA E VENEANO PAGATE PURU BENE). ITTU E FATTU!! DOPPU POCO TEMPO ADELE PARTE PER ROMA A FA’ DA BALIA ALLA FIGLIA DE ‘NA FAMIGLIA BENESTANTE. LA FIGLIA ‘NTONIA REMASE CO GLIU MARITU E COLLA SOCERA. ‘NTANTU CHE LA MADRE STEA A ROMA ‘NTONIA LO LATTE GLIELLO DETTE ‘NA CERTA MARIANNINA “LA PIAGNONA” CHE STEA ALLATTA LA FIGLIA SEA. SE CI PINZIMU PERO’ MA QUANTO LATTE GLI POTEA DA’ SE LO DEA PURU ALLA FIGLIA? CHE TEMPI!! CUMUNQUE TRA ‘NALLATTATA E L’ARA ‘NTONIA PIANU PIANU VENEA CRESCENNO.... ADELE CHE STEA A FA’ ‘N SACRIFICIU PROPIU ROSSU PENSEA SEMPRE ALLA FIGLIA SPERENNO CHE GLI DEANO AMMAGNA’ . PASSA GLIU TEMPU E VENNE L’ORA DE RIVENI’ A GHIERANU. ADELE CONTENTA COMME ‘NA PASQUA SE GUADAGNA’ TREMILA LIRE (A CHIGLI TEMPI ERANU TANTE). DISSE AGLIU MARITU E ALLA SOCERA : “ CO STI SORDI CI POTIMU COMPRA’ ‘NA CASELLUCCIA “. ‘NGELINU CARMU CARMU RESPOSE : “ ADE’ TU NON LO SA CHE E’ SUCCESSU ‘NTANTU STII A ROMA ...S’E’ MORTU GL’ ASINU E TENIMU DA PAGA’ UN QUINTALE DE FIORE (FARINA) E ALLORA LA CASA NON CE ‘LLA PUTIMU COMPRA’ “. ADELE POERELLA NON CI POTEA CREDE!! TUTTU GLIU SACRIFICIU E NIENTE CASA!! A CHIGLIU PUNTU NON GNI REMANEA ARU CHE STARESE COLLA SOCERA, CHE PE’ CARITA’ ERA BBONA COMME LO PANE MA ERA SEMPRE LA SOCERA.... CUSI’ ADELE CO ‘NTONIA E GLI ARI FIGLI CHE VINNIRU APPRESSU STETTE LA BELLEZZA DE VENTITRE ANNI COLLA SOCERA. LA CASA ORAMMAI SE L’ERA BELLA CHE GUADAGNATA !!! MORALE : QUESTA STORIA CI INSEGNA CHE QUANDO UNA PERSONA HA UN SOGNO O COMUNQUE UN’IDEA DI “FUTURO” DURANTE LA STRADA CHE SI PERCORRE, PURTROPPO, POSSONO ACCADERE DEGLI IMPEDIMENTI CHE POSSONO NON DIPENDERE DALLA PERSONA STESSA MA DALLE CIRCOSTANZE CHE SI VENGONO A CREARE.... A TAL PROPOSITO C’E’ UN DETTO CHE DICE : CHI DISEGNA E CHI SQUADRA!! COSI DICEVA SEMPRE ‘NTONIA....

LA LUCE DELLA MUSICA

Di Maria Angiulo

C’è da sempre in un paesino chiamato Gerano la voglia di far festa tutto l'anno e il gatto pigro che si adagia sulle scale comincia a miagolare. Un giorno venne da Roma un maestro di musica di grande talento, piccolo di statura ma con grandi idee. Egli portò con sé strumenti, musicisti, cantanti e ballerini. l'intero paese fu così coinvolto che persino i campanelli dei portoni e le campane delle chiese si misero a suonare, le porte e le finestre si aprivano per cantare. Ci fu per alcuni giorni un brulicare di persone che venivano a sentire i suoni di mille note musicali e tutto il paese si illuminò di una grande luce. Gli abitanti dei paesi vicini incuriositi vollero vedere da dove provenisse questa luce e con grande meraviglia scoprirono che la forza della musica aveva in poco tempo cambiato le cose e dato alla gente amore e felicità.

TRE CASETTE

Di Leonetta Proietti

Tre casette strette strette, Tutte quante appiccicate, Pe parla’ co ju vicinu, Alla finestra ta da’ affattane. Comma’ damme un vacu de sale, Compà la vo’ na fetta de pane? Quanno era ora de cena, La famiglia se radunea tra discursi a vocca piena La votte spissu se svotea Pori cristi, stracchi stracchi Che teneanu quattro stracci Un vinello de fraschetto E po’ tutti a piagne a ‘nghetto Tutti uguali i titti vecchi I cammini niri niri E gl’ addore dalle ciuciumelle Ficea ju giru pe le fontanelle La piazzetta era già piena De paesani finu a sera La domenica se sa’ Non lavora mancu papà Un rumore de lambretta Pe gli viculi se sente Ecco Dolci ju dottore Pe cura’ chisa’ che gente Nvece era ju compare Che innotte è statu male “Ma tocca, non è niente” E non esse mpirtinente Bivi troppu veramente Finché moglieta te sopporta… Tutte se fau na risatella Co la gonna tantu bella Messa addosso preche’ è domenica Ci putimo reficca’ è quasi ora de cena Contamo pure massera i picchieri de vinu che vau Dima’ è lunedì se recomenza.

LA LEZIONE DI UN FIORE

Di Jacopo Igor Bonolo Voce narrante di Sofia Cacciaguerra

LA LEZIONE DI UN FIORE, SPESSO POSSIAMO ESSERE DI PIÙ DI QUANTO IMMAGINIAMO
C’era una volta, nei boschi dei monti Ruffi, intorno al borgo di Gerano, un bellissimo fiore di tarassaco, di nome Sandro: i suoi petali erano fini, di un giallo intenso, esaltato dalla lucentezza della rugiada. Il suo nettare era il più apprezzato dalle api e dai bombi della Valle dell’Aniene, e lo stelo era lungo e sottile, con ampie foglie verdi. La bellezza di questo fiore era invidiata dagli altri fiori del prato, ma nonostante ciò Sandro era scontento, perché si sentiva inutile e triste. Quando rifletteva sulla causa della sua tristezza, il tarassaco scopriva dentro di sé che il motivo dello sconforto era che la sua natura di fiore lo rendeva infelice, e che trovava motivazione e gioia soltanto al pensiero di diventare un oggetto utile per aiutare gli altri: desiderava con tutti i suoi petali essere un ombrello! Da quando Sandro aveva visto un uomo passeggiare sul “suo” prato in una giornata di pioggia, con un grande ombrello viola, il fiorellino si era innamorato follemente dell’ombrello stesso, e della sua funzione così utile di proteggere dalla pioggia, a tal punto da trasformare questo oggetto nel desiderio della sua vita. Il fiore Sandro cercò conforto nelle parole degli altri fiori del prato, ma quando espresse il suo desiderio di identità venne disprezzato, insultato ed escluso. Anche le viole e le margherite che passavano le giornate a corteggiarlo gli voltarono le spalle, lasciandolo nel dolore e nella solitudine. Sandro iniziò ad “afflosciarsi” e a perdere le energie, diventando quasi secco: non riusciva a comprendere perché gli altri fiori lo discriminassero così, per la sua idea differente dalla loro. Lui voleva mettere a disposizione la sua vita per il bene degli altri, e non desiderava trascorrere un’esistenza “banale” come quella dei comuni fiori, che passavano le giornate solo a corteggiarsi e a pavoneggiarsi su chi fosse il più bello. Passarono molti giorni estivi di siccità, finché arrivò la pioggia: Sandro era sempre floscio e triste, a causa del sentirsi incompreso, ma mentre pioveva si accorse di una cosa incredibile: piccolissime formiche, minuscoli ragnetti, lumache e bruchi trovavano riparo sotto i suoi petali e le sue foglie, proprio come se lui per questi insetti fosse diventato un ombrello! Finalmente, dopo il periodo “buio”, Sandro raddrizzò il suo stelo, ritrovò la gioia e riparò tutti questi piccoli esseri dalle gocce di pioggia e dal vento, per tutta la durata del temporale. Al ritorno del bel tempo i piccoli insetti ringraziarono il tarassaco Sandro, e lo riempirono di felicità dalle radici fino alla sommità dei petali gialli. Con gratitudine, le formiche costruirono un formicaio vicino al fiore, per potergli fare compagnia, poiché da adesso in poi lo considerarono uno stabile punto di riferimento. Da questo momento Sandro fu sempre circondato da insetti che parlavano con lui delle loro difficoltà, e il fiorellino -facendo riferimento alla propria storia- li incoraggiava a superare i problemi, tanto da diventare il miglior “psico-insettologo” dei monti intorno Gerano. Spesso, a causa degli altri, possiamo sentirci sbagliati, ma nonostante ciò non dimentichiamo di dare vita ai nostri desideri. Non c’è limite per i sogni!